La giunzione fra i fricchettoni dei centri sociali e il disagio degli immigrati di seconda generazione è una miscela sociale (anzi, antisociale) terribile. In Barriera di Milano questo sta accadendo.
Nel quartiere vivono molti ragazzi italiani ma di origini nordafricane e mediorientali. Nella maggior parte dei casi le loro famiglie sono operose, oneste e animate da buona volontà. Tuttavia, proprio per questo, sono ragazzi che patiscono e recriminano quando vengono genericamente ammucchiati nella categoria della teppaglia, degli spacciatori e dei ladri. È la stessa cosa che accade a un ligure che viene tacciato di tirchieria (anche se fa laute beneficenze), a un napoletano che deve portarsi il marchio d'infamia del truffatore (anche quando è un serio commerciante), oppure a un siciliano che automaticamente è un mafioso con la coppola in testa.
Affianco a questi giovani ingiustamente mortificati, ci sono poi veri delinquenti, pusher, scippatori e predatori d’ogni risma. Questa accolita di banditi ha gioco facile nel seminare pessimi pensieri fra i “fratelli” che cercano di restare sulla retta via: “lo vedi, fratello, che ti trattano come uno straccione anche se pedali tutto il giorno sulla bici per consegnare le pizze a loro?”; “lo capisci, fratello, che ti tengono fuori dai giri che contano anche se la mattina vai a scuola e il pomeriggio fai l’assistente dell’aiuto-operaio nei cantieri?”. Argomenti subdoli e in malafede che, piano piano, ficcano nella testa dei migliori l’idea che non contino le condotte quotidiane (belle e buone) ma solo le origini, la cultura di provenienza, il marchio di fabbrica. A un certo punto ci si convince che il destino sia segnato: arrancare tutta la vita e prendere sputi in faccia senza ragione. Qui scattano il malessere e la sofferenza della discriminazione. Si vede la realtà circostante come indebitamente ostile, prevaricatrice, soffocante.
Basta una fiammella per far incendiare stati d’animo di questo tipo. Bastano due o tre slogan contro lo Stato e contro la Polizia. Ed ecco che arrivano quelli a cui piace indossare i panni degli emarginati, degli esclusi, dei rifiutati. Sono bianchi, sono italiani da sempre, sono torinesi spesso di “buona famiglia” (se pure ha un senso la definizione). Hanno scelto di gravitare intorno (o dentro) ai centri sociali, convinti di dover cambiare un mondo brutto e cattivo. Per carità, il mondo è davvero brutto e cattivo, ma non si capisce come questi stravaganti contestatori possano cambiarlo con atteggiamenti di facciata (da una parte) e scagliando pietre (dall’altra). Pietre che atterrano su poliziotti e carabinieri appena ci sia una qualunque scusa a cui 'sti rivoluzionari alla bagna cauda' possano aggrapparsi per le loro prontissime mobilitazioni con megafoni e striscioni: dalla Palestina alle carestie che affliggono l’Africa centrale.
Insomma, le fittizie bandiere sventolate dagli antagonisti pronti a scendere in piazza per le cause più lontane e indecifrabili chiamano a raccolta, come le perfide sirene di Ulisse, anche una rabbia generica, una insoddisfazione massimalista, un rancore sottile (ma pervasivo) che alberga nelle periferie, nelle zone del degrado urbano, in Barriera come in Aurora e altrove.
Così si determina l’unione perniciosa fra aree che vedono nell’attuale assetto socio-istituzionale un nemico da abbattere (e non da migliorare dando il proprio umile contributo). Così avviene la saldatura delle povertà mentali con quelle materiali, in nome di un sommario assalto all’ordine costituito.
Nell’angolo in fondo, restano cittadini impauriti che assistono al lancio di bombe carta e pietre. Restano i servitori dello Stato che finiscono all’ospedale con la testa spaccata. Resta una convivenza civile offesa, saccheggiata, ferita.
Del resto lasciare i giovani nelle periferie e disinteressarsene per decenni, è stata la scelta facile dei politici e questo il risultato.